Fauna selvatica, Italia ai primi posti

Molti i fattori che hanno contribuito al primato e, tra questi, anche l’azione di cacciatori e agricoltori

 A cura di GIORGIO PETTINA’

 Non tutti sanno che il nostro Paese è, in Europa, tra quelli più ‘dotati’ quanto a ricchezza di presenze faunistiche. E’ un dato solo in parte sorprendente, vedremo poi meglio perché, che riguarda non solo gli aspetti quantitativi ma anche qualitativi, intesi come biodiversità.

Del resto là dove non arrivano le statistiche provvedono l’esperienza e le cronache che sempre più spesso sono costrette a trattare di questa ‘ricchezza’ , magari in termini negativi, per segnalare i frequenti sconfinamenti di cinghiali, cervi, caprioli, daini e quant’altro, in aree con coltivi di pregio o sulla viabilità ordinaria.

Ma anche la piccola fauna ha progressivamente ripopolato le nostre campagne, giungendo sino ai confini dei centri abitati. Difficile e complesso il discorso sulle ragioni che hanno condotto a questo stato di cose: c’entra sicuramente l’abbandono di ampie aree, una volta occupate dalle produzioni agricole e adesso trasformatesi in boschi. Un fenomeno questo che ha facilitato il diffondersi di alcune specie come il cinghiale e gli altri grandi ungulati. E c’entra la maggiore sensibilità nei confronti del territorio che è maturata nel corso degli ultimi 20/30 anni.

Tra i fattori che hanno contribuito alla ricchezza faunistica del nostro Paese ve ne sono poi alcuni che rischiano spesso di essere ‘conteggiati’ nel novero di quelli negativi. E’ il caso della caccia, nei confronti della quale si levano a volte posizioni pregiudizialmente negative, prima ancora di conoscere e capire cosa abbia significato per un Paese come l’Italia.

Passata l’ondata ‘consumistica’ che non ha risparmiato neppure le campagne e la cultura rurale, di cui la caccia è parte integrante ed erede, il ‘prima’ ed il ‘dopo’ sono in grado di spiegare come si siano potuti mantenere habitat di raro pregio e non si sia mai abbandonato l’obiettivo di tutelare ed incrementare il capitale faunistico, prima ancora che nascessero i grandi parchi e le aree protette. Il ‘prima’ può intendersi come la fase che precede la moderna legislazione: per tutta una lunga fase cacciatori e naturalisti hanno spesso convissuto nella stessa persona, regalando alla società conoscenze sistematiche sulla nostra fauna ed i suoi habitat: vi sono figure illustri a cui si debbono ponderosi trattati di ornitologia e zoologia, con osservazioni originali e sistematiche. Del resto come dimenticare che nei primi atti di molte neonate associazioni di cacciatori, ai primi dell’800, stanno concrete misure per la repressione del bracconaggio.

Nel poi c’è la continuazione di quella cultura e di quella filosofia, fatta certo anche di utilitarismo – se non c’è fauna, non ci può essere neanche prelievo – ma ricca di risvolti sociali rilevanti. 

Sin dal suo titolo che richiama la difesa della fauna omeoterma, la legge sulla caccia varata nel 1992 indica l’importanza di una sana gestione, che punti a prelevare gli interessi di un capitale, la fauna, che non deve mai essere intaccato.

E per rendere la gestione un fatto concreto, quella legge indica anche strumenti amministrativi, gli Ambiti Territoriali di Caccia, dentro cui siedono oggi, accanto ai cacciatori, gli agricoltori, gli ambientalisti e i rappresentanti delle istituzioni.

Con soldi dei cacciatori si fanno adesso investimenti per rendere il territorio più congeniale alla presenza della fauna, si pagano i danni, ahimè, che la fauna produce alle coltivazioni (anche quando questi sono il frutto di mancata gestione in aree interdette alla caccia ed ai cacciatori), si lavora per produrre fauna di qualità nelle Zone di Ripopolamento, si fanno progetti per la reintroduzione di selvatici scomparsi come la starna o la pernice.

E si ottengono risultati importanti; risultati che, certo non da soli, però contribuiscono concretamente a quella ricchezza faunistica che colloca il nostro Paese ai primi posti in Europa.